Separazioni e divorzi: accesso ai documenti fiscali dell’ex

UN CONIUGE PUO’ RICHIEDERE ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE LA DOCUMENTAZIONE FISCALE E REDDITUALE DELL’ALTRO CONIUGE SENZA AUTORIZZAZIONE DEL GIUDICE.

Il Consiglio di Stato, riunito in Adunanza Plenaria, ha pronunciato il 25 settembre scorso una sentenza d’indubbia rilevanza, riconoscendo il diritto di un coniuge o di un convivente di accedere alle informazioni che riguardano gli aspetti reddituali, patrimoniali e finanziari riferibili all’altro, presentando all’Agenzia delle Entrate un’istanza di accesso ai documenti amministrativi che lo riguardano ai sensi dell’art. 22 e ss. della L. 241/1990, ove ciò risponda ad un’esigenza di tutela dei diritti fondamentali correlati ad un rapporto coniugale, di convivenza e/o filiazione, ciò a prescindere dal fatto che il procedimento civile sia già stato instaurato o meno.

Per comprendere la portata della pronuncia – che risolve un contrasto giurisprudenziale in seno alla 4° sezione del Consiglio di Stato – occorre premettere un breve inquadramento normativo.

Preliminarmente, è necessario ricordare che la decisione del Giudice in merito all’attribuzione di un contributo al mantenimento del coniuge in sede di separazione o di un assegno divorzile in sede di divorzio, come anche dei contributi al mantenimento dei figli minorenni e maggiorenni non economicamente autosufficienti non può prescindere dall’esame comparativo delle risorse economiche e reddituali di entrambi i coniugi/genitori.

E’, pertanto, imprescindibile che in giudizio tali risorse risultino allegate e provate dalla parte che avanza pretese di carattere economico per ottenere un’efficace tutela giurisdizionale dei propri diritti.

E’, altresì, evidente quanto possa essere importante avere conoscenza di tali dati prima dell’instaurazione del procedimento: per avviare proficuamente un eventuale trattativa in vista di una definizione consensuale, così come per impostare in modo corretto il procedimento e la formulazione delle domande che con esso si promuovono, evitando la radicazione di giudizi per pretese, che poi si rivelano non sostenibili.

Non esiste una norma che al di fuori del giudizio civile imponga a ciascuna delle parti di mostrare all’altra la documentazione riguardante i propri redditi, eventuali altre entrate economiche, i risparmi o altri beni di cui siano proprietarie: tutto è lasciato all’iniziativa ed alla disponibilità dei singoli o, a dirla tutta, alla tempestività del coniuge più solerte, che è riuscito in tempi non sospetti ad acquisire la documentazione dell’altro.

A giudizio instaurato, invece, i Tribunali di merito sono soliti imporre ai coniugi ai sensi dell’art. 5, comma 9, della L. 898/1970 sul divorzio, pacificamente applicabile anche ai giudizi di separazione, il deposito presso la Cancelleria delle dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni e di ogni altra documentazione afferente il proprio patrimonio personale e quello comune, obbligo cui non sempre le parti adempiono con la dovuta solerzia ed esaustività.

Sempre il citato art. 5 riconosce al Tribunale la facoltà di disporre indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita dei coniugi, avvalendosi, se del caso, anche della Polizia Tributaria, qualora a seguito delle contestazioni mosse da un coniuge sulla documentazione prodotta dall’altro risulti necessario fare chiarezza sull’effettiva capacità patrimoniale di quest’ultimo, acquisendo ulteriori elementi per completare il materiale probatorio.

L’art. 337 ter, 6 comma, c.p.c., poi, in materia di determinazione del contributo al mantenimento dei figli, dispone che, laddove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il Giudice ha facoltà di disporre un accertamento della Polizia Tributaria sui redditi e sui beni oggetto di contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.

Il decreto legge n. 132/2014, convertito nella L. 162/2014 ha, infine, ulteriormente ampliato i poteri istruttori del Giudice della famiglia, attribuendogli la facoltà di accedere con modalità telematiche alle banche dati della Pubblica Amministrazione, quali l’anagrafe tributaria, ivi compreso l’archivio dei rapporti finanziari, e quelle degli Enti Previdenziali per acquisire le informazioni e la documentazione, di cui necessita ai sensi del surrichiamato art. 337 ter, 6° comma, c.p.c..

Tuttavia, occorre tenere presente che la normativa in esame attribuisce al Giudice una mera facoltà, che questi esercita nell’ambito dei poteri discrezionali con cui valuta i mezzi prova ed apprezza i fatti e nel pieno rispetto delle regole del contraddittorio, che presiedono il procedimento civile.

In ossequio a tali regole il Giudice non può disporre le indagini della Polizia Tributaria per fini meramente esplorativi, né per reperire elementi di prova che il coniuge interessato alle attribuzioni economiche avrebbe dovuto e potuto portare nel procedimento.

Il Giudice può disporre le indagini patrimoniali, avvalendosi della Polizia tributaria, solo per integrare le prove già acquisite al procedimento, quando residuano aspetti da chiarire che il coniuge onerato della prova non ha possibilità di completare attraverso gli ordinari mezzi istruttori.

Sarà, quindi, necessario che il coniuge che ha avanzato le richieste economiche abbia contestato i contenuti della documentazione presentata dal coniuge tenuto al mantenimento, supportando tali contestazioni con documenti prodotti in giudizio oppure in forza di fatti specifici e circostanziati confermati dai testi escussi.

È, pertanto, evidente che, se il coniuge onerato della prova non è in grado di allegare e provare tali fatti, né dispone di ulteriore documentazione e si limita a generiche contestazioni, difficilmente riuscirà ad ottenere che il Giudice disponga le indagini patrimoniali con un’evidente perdita di tutela giurisdizionale dei propri diritti.

Nell’ambito di questo inquadramento normativo, il fatto che il Consiglio di Stato abbia riconosciuto il diritto del coniuge ad accedere ai documenti dell’anagrafe tributaria, ivi compreso l’archivio dei rapporti finanziari, contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari dell’altro coniuge, a prescindere dalle istanze istruttorie che potranno essere formulate nel giudizio ed ai correlati poteri istruttori del Giudice della famiglia, assume una indiscussa rilevanza.

La normativa che entra in gioco è la Legge 241/1990, i cui art. 22 e ss. riconoscono il diritto di accedere ai documenti amministrativi mediante un istanza motivata da presentarsi all’Amministrazione che ha formato il documento, o che lo detiene stabilmente, al fine di esaminare ed estrarre copia dei documenti amministrativi richiesti.

Nel caso di specie si trattava di una moglie che, essendo già pendente un procedimento di separazione, nel cui ambito aveva chiesto l’addebito della separazione al marito, nonché una contribuzione al proprio mantenimento e l’assegnazione della casa coniugale, aveva presentato all’Agenzia delle Entrate un’istanza per estrarre copia della documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale del marito ( compresi eventuali contratti di locazione a terzi di immobili di proprietà e/o comproprietà del coniuge), nonché delle comunicazioni inviate dagli operatori finanziati all’anagrafe tributaria e conservate nella sezione archivio dei rapporti finanziari, relative alle operazioni finanziarie riferibili allo stesso coniuge.

L’Agenzia delle Entrate aveva negato l’accesso sulla base del fatto che l’interessato si era opposto e perché, comunque, sarebbe occorsa l’autorizzazione del Giudice investito della causa di separazione.

Il T.A.R., presso il quale la moglie impugnava il diniego, riconoscendo la rilevanza della documentazione richiesta nel giudizio di separazione per fini di tutela dei diritti azionati in giudizio, autorizzava l’accesso.

Il Consiglio di Stato, presso il quale proponeva appello l’Agenzia delle Entrate, confermava il diritto della moglie di accedere ai documenti amministrativi del marito richiesti, essendo tale richiesta finalizzata alla effettiva tutela giurisdizionale di diritti fondamentali dei membri della famiglia.

Riteneva, altresì, il Consiglio di Stato che tale modalità di acquisizione non fosse esclusa dalle forme di acquisizione probatoria prevista nell’ambito dei procedimenti di famiglia, essendo semmai le due modalità cumulative e complementari.

Pertanto, alla luce di tale decisione, il coniuge interessato potrà presentare un’istanza di accesso all’Agenzia delle Entrate al fine di acquisire copia della documentazione, di cui quest’ultima dispone, in merito alla condizione reddituale, patrimoniale ed economico-finanziaria del coniuge onerato al mantenimento e, successivamente nel corso del procedimento, potrà instare in via istruttoria che il Giudice disponga ulteriori approfondimenti mediante le indagini della Polizia Tributaria, qualora dal complesso della documentazione acquisita e prodotta emerga la necessità di ulteriori chiarimenti, che la parte non è in grado di soddisfare.

L’istanza di accesso dovrà essere motivata dall’esigenza concreta ed attuale di difesa in giudizio di situazioni riconosciute dall’ordinamento giuridico come meritevoli di tutela da ricondursi alla “famiglia” in senso omnicomprensivo, comprendente quindi anche i rapporti di convivenza.

Tale esigenza dovrà essere comprovata, allegando all’istanza idonea documentazione quale il mandato conferito al proprio difensore, lo scambio di corrispondenza tra legali, copia degli atti di causa, se il procedimento è già stato promosso.

A sua volta, il coniuge, nei cui confronti è stata presentata l’istanza ai sensi dell’art. 22 e ss della L. 241/1990, potrà svolgere le proprie difese, opponendosi all’accesso, ovvero impugnando il provvedimento di autorizzazione all’acquisizione dei documenti nanti il T.A.R. competente.

Certamente costituisce valido motivo di opposizione una richiesta di accesso al fine di acquisire dati ed informazioni che non siano strettamente funzionali all’esigenza di difesa di un interesse giuridicamente rilevante in un promosso o promuovendo procedimento (di separazione o di divorzio, di regolamentazione del rapporto di filiazione o dei rapporti economici conseguenti alla cessazione di una convivenza).

Sul punto il Consiglio di Stato è estremamente rigoroso nel pretendere la sussistenza di uno stretto nesso di strumentalità concreta tra l’esigenza di difendere la situazione soggettiva allegata all’istanza ed i documenti di cui si chiede l’ostensione.

Ci si potrà, pertanto, validamente opporre ad un’istanza di accesso, che facesse riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite ad un processo già pendente oppure ancora da instaurarsi, senza indicazione della rilevanza che i documenti richiesti potrebbero avere ai fini di tutela di un ben individuato diritto (ad es. mantenimento del coniuge e/o dei figli), che deve essere parimenti allegato e comprovato.

Emergenza epidemiologica da COVID-19 I procedimenti di separazione e divorzio

Le misure adottate dal Governo Italiano per l’impellente necessità di contenere il diffondersi dell’epidemia da Coronavirus stanno mettendo a dura prova i coniugi in procinto di separarsi.

Quelli che, a mio avviso, stanno subendo maggiormente gli effetti negativi del lockdown sono i coniugi che si sono trovati a febbraio scorso all’inizio del percorso, quelli che avevano deciso di separarsi ma non avevano ancora raggiunto un accordo sulle condizioni della separazione e, quindi, nessun procedimento era stato ancora radicato.

Così, mentre gli Avvocati hanno cercato di portare avanti la trattativa, auspicando di giungere ad una definizione consensuale della separazione, i clienti si sono trovati sospesi in un limbo, una situazione indefinita, che è già di per sé pesante nelle situazioni normali, quando è possibile organizzare le giornate in modo da incontrarsi in casa il meno possibile, per evitare litigi e discussioni, figurarsi quando si è costretti a stare sotto lo stesso tetto, insieme, 24 ore al giorno.

Una polveriera nella quale sovente basta poco per accendere gli animi e dar voce a tutta quella congerie di sentimenti, che di norma in questa fase nessuno dei due coniugi ha ancora metabolizzato, nemmeno quando la decisione di separarsi è stata presa di comune accordo (rabbia, rancore, frustrazione, senso di fallimento, di rivalsa, d’impotenza, risentimenti reciproci …).

Anche per noi Avvocati non è stato semplice dar loro un supporto concreto, che, in ogni caso, mai come ora, non poteva prescindere dalla capacità di ogni cliente di superare una visione soggettiva e personalistica degli avvenimenti per rendersi disponibili a collaborare ed a trovare soluzioni condivise e di buon senso.

Non è sempre facile, né scontato, nemmeno in situazioni emergenziali come quella presente, anche perché il fatto di non sapere quando sarà possibile formalizzare concretamente la separazione non fa che esasperare ulteriormente gli animi.

Infatti, in questo periodo di sospensione delle attività giudiziali, anche nelle ipotesi in cui si fosse riusciti a trovare un accordo su tutte le condizioni della separazione, a redigere il ricorso e ad depositarlo, non vi sarebbe stata alcuna possibilità di sapere entro un breve termine quando avrebbe potuto aver luogo l’Udienza Presidenziale, a meno che il procedimento non avesse rivestito carattere di urgenza.

Ricordo, infatti, che in forza dei vari provvedimenti governativi, che si sono succeduti in questo periodo, tutte le udienze dei procedimenti di separazione e di divorzio che avrebbero dovuto aver luogo tra l’8 marzo e l’11 Maggio sono state rinviate d’ufficio.

I soli procedimenti non sospesi – per quanto rileva ai fini della presente trattazione – sono stati quelli concernenti gli alimenti e le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, quelli concernenti l’adozione di provvedimenti contro gli abusi familiari e quelli la cui ritardata trattazione avrebbe prodotto grave pregiudizio alle parti.

Quindi, certamente, tutti i procedimenti di separazione o di divorzio giudiziale, nei quali sono stati allegati episodi di abusi familiari e richiesti i correlati ordini di protezione, non sono stati sospesi.

Quanto alle fattispecie rientranti nelle “cause relative agli alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità” non è stata data risposta univoca da tutti i Tribunali Italiani, che si sono ciascuno dotati di linee guida per gestire questa fase estremamente difficile e complicata anche per l’amministrazione della giustizia.

Alcuni Tribunali hanno interpretato restrittivamente la previsione, circoscrivendola alle cause riguardanti la richiesta di alimenti in senso stretto, ovvero dei mezzi minimi di sussistenza per chi versa in stato di bisogno e non può provvedere al proprio mantenimento.

Altri Tribunali hanno ritenuto dovessero rientrare in tale ipotesi anche i procedimenti concernenti gli obblighi di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli (art. 316 bis C.c.) ed i procedimenti volti ad ottenere l’accredito diretto da parte del terzo (tipicamente il datore di lavoro) dei contributi al mantenimento del coniuge e/o dei figli, in caso di inadempienza dell’altro coniuge onerato del pagamento in forza di quanto disposto in sede di separazione o di divorzio.

Altri Tribunali ancora hanno compreso nella fattispecie delle cause cd. alimentari anche i procedimenti di separazione e di divorzio e quelli riguardanti figli di coppie non sposate, nei quali sono state proposte domande di carattere economico relative al mantenimento, allineandosi, così, con quanto indicato nella relazione illustrativa, che ha accompagnato l’adozione del D.L.18/2020, che ha richiamato il concetto di obbligazione alimentare come inteso nelle disposizioni euro unitarie ed in particolare il Regolamento 4/2009 CE (art. 1).

In ogni caso, ove ritenuto non incluso nell’ipotesi ex lege sopra indicata, è stato comunque sottratto all’obbligo di sospensione e di rinvio d’ufficio ogni procedimento in materia di diritto di famiglia, implicante la regolamentazione di obblighi di contribuzione al mantenimento del coniuge e/o dei figli o la regolamentazione del rapporto genitoriale, ove sia stato allegato dalla difesa un motivo di urgenza riconducibile, ad esempio, ad una particolare conflittualità dei coniugi o ad asserite incapacità genitoriali o a rilevanti disagi dei figli o ancora a gravi difficoltà economiche di una delle parti in quanto procedimento, la cui ritardata trattazione avrebbe arrecato grave pregiudizio alle parti.

Indubbiamente, l’incerto dato normativo non ha aiutato.

Io ritengo che, per quanto non fosse semplice trovare un giusto bilanciamento nella tutela di due diritti entrambi fondamentali per la persona e di rango costituzionale (salute e famiglia), peraltro in tempi estremamente rapidi, il legislatore avrebbe dovuto essere più chiaro e coraggioso perché, in definitiva, i procedimenti del diritto di famiglia hanno peculiarità proprie che rendono sempre, tranne poche eccezioni, pregiudizievole in re ipsa la ritardata trattazione e ciò, soprattutto, se le parti sono del tutto prive di una regolamentazione dei loro rapporti.

Ad esempio, quando viene proposta una domanda di divorzio, le parti hanno la regolamentazione adottata in sede di separazione, su cui possono continuare a fare riferimento, sono quindi maggiormente in grado di sostenere un rinvio della trattazione del procedimento, a meno che non alleghino circostanze nuove, sopravvenute che ne rendano urgente una modifica nella fase del divorzio.

Al contrario, in una separazione giudiziale, nel cui ambito non ha ancora avuto luogo l’udienza Presidenziale, le parti non hanno alcun riferimento che possa aiutarli nella gestione della relazione entrata in crisi con gravità tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza.

E non è da escludere che anche i coniugi, che si separano consensualmente, abbiamo bisogno di ottenere quanto prima una definizione del procedimento.

Spesso, dietro a ricorsi presentati congiuntamente esistono situazioni di grande disagio personale, difficoltà relazionali, contrasti non sanati, per superare i quali è necessario poter mettere un punto fermo per ricominciare con nuove prospettive e maggior serenità, anche per il benessere dei figli.

Nell’ambito delle misure emergenziali, i procedimenti di separazione o di divorzio, consensuali o giudiziali, privi del requisito dell’urgenza, hanno, quindi, subito inevitabilmente il rinvio d’ufficio delle udienze già fissate nei mesi di Marzo ed Aprile, nelle migliori delle ipotesi, a giugno o luglio, se non già a settembre prossimo ed ai mesi successivi.

In molti Tribunali le nuove udienze non sono state ancora calendarizzate nemmeno con riferimenti ai procedimenti connotati dall’urgenza.

Ancor meno rosea è la prospettiva dei procedimenti per separazione consensuale o divorzio congiunto, non urgenti, depositati in questi mesi di sospensione (ove consentito).

Ricordo, infatti, che nello stesso arco temporale (2 Marzo – 11 Maggio) sono stati interdetti gli accessi fisici alle Cancellerie da parte degli Avvocati, cui è stato consentito esclusivamente il deposito degli atti per mezzo del processo telematico (PCT) con assoluta priorità alle istanze contraddistinte dal requisito dell’urgenza.

Le Cancellerie dei Tribunali hanno avuto difficoltà operative di non poco conto: si sono trovate ad operare con organici ridotti ai minimi termini e l’impossibilità per il personale a casa di accedere da remoto al PCT.

Alcuni Tribunali hanno ricevuto un numero tale di istanze “urgenti” che le Cancellerie nemmeno sono riuscite ad accusare telematicamente ricezione di tutte e programmarne i relativi adempimenti.

Il 12 maggio avrà termine il periodo di sospensione e l’amministrazione della giustizia potrà riprendere il suo corso.

Il Consiglio Nazionale Forense ha già dato alcune indicazioni relative ai procedimenti del diritto di famiglia per il periodo fino al 30.6.2020, al quale ciascun Tribunale ha fatto o farà riferimento, tenendo però anche conto delle proprie reali possibilità operative.

Il principio generale è quello di fare ricorso preferenziale alle modalità della trattazione scritta e delle udienze da remoto, già introdotte per i procedimenti urgenti non sospesi nel periodo emergenziale.

Per quanto concerne i procedimenti di separazione consensuale e di divorzio congiunto si è previsto che gli Avvocati possano chiederne la trattazione scritta.

Ciò avverrà mediante il deposito telematico di un’istanza sottoscritta dalle parti, nella quale ciascun coniuge consapevolmente dovrà rinunciare a comparire all’udienza, dovrà dichiarare di non volersi conciliare e dovrà confermare di volersi separare o di voler divorziare alle condizioni di cui al ricorso introduttivo.

Al deposito di tale istanza seguirà l’omologa della separazione o la sentenza del divorzio, previo parere del P.M. in presenza di figli minorenni.

Per quanto riguarda, invece, le separazioni ed i divorzi contenziosi verrà data preferenza alle udienze tramite collegamento da remoto, ove entrambi i difensori comunichino al Tribunale la conformità di tale soluzione con le esigenze della difesa ed il Giudice non sia di contrario avviso con riferimento alle peculiarità del caso concreto (dare maggiore incisività al proprio intervento di mediazione, laddove la conflittualità sia elevata oppure sia richiesto dalla presenza di figli minori).

Nel caso si proceda da remoto è preferibile che le parti si rechino ciascuno nello studio del proprio difensore, da dove verrà effettuato il collegamento.

Ove, invece, necessaria, la comparizione personale delle parti, verrà fissata un’udienza che dovrà svolgersi nel rispetto di tutte le prescrizioni ministeriali e del capo dell’Ufficio Giudiziario finalizzate al contenimento della diffusione dell’epidemia.

Nel caso debba essere espletata una C.T.U., ad esempio sulle competenze genitoriali, il conferimento dell’incarico e le altre formalità connesse verranno espletate con lo scambio di scritti tra il Giudice ed il Consulente mediante il PCT.

Nel caso si debba procedere all’audizione dei servizi sociali o alla comparizione del C.T.U. a chiarimenti si darà preferenza all’udienza da remoto.

L’ascolto del minore potrà essere effettuato solo ove assolutamente indispensabile ed avverrà di persona negli uffici del Tribunale, sempre nel rispetto delle prescrizioni ministeriali, o in modalità da remoto (ciò preferibilmente se il minore ha un curatore).

Insomma, la buona volontà di ricominciare non manca, ma bisogna fare i conti con le effettive risorse a disposizione di ogni Tribunale e l’enorme quantità di lavoro che in questi mesi di inattività si è accumulato e dovrà essere organizzato, programmato e ricalendarizzato.

Dovremmo chiedere ai clienti grande resilienza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ddl Pillon: È davvero innovativo? Realizzerà i suoi obiettivi?

(“Tutto cambia perché nulla cambi”,
 ammoniva il Principe Salina un paio di secoli fa).

Agli inizi del mese di agosto è stato depositato presso il Senato un disegno di legge a firma, fra gli altri, del Senatore Pillon che in questi giorni è soggetto all’iter parlamentare necessario per l’approvazione e che, secondo quanto anticipato dagli estensori, inciderà in modo significativo sull’attuale disciplina in materia di affidamento e mantenimento dei figli minori nell’ambito dei procedimenti di separazione e divorzio.

Questa iniziativa legislativa onora l’impegno assunto dal M5S e dalla Lega con il noto “Contratto di Governo per il cambiamento” di rivisitare l’istituto dell’affidamento condiviso con l’obiettivo di pervenire ad un’effettiva attuazione della cd. “bigenitorialità”, ovvero ad una reale, paritetica e condivisa partecipazione di entrambi i genitori alla cura ed all’educazione dei figli, ed a una diversa regolamentazione dei connessi aspetti economici che riconosca maggiore rilevanza al mantenimento in forma diretta, che si attua quando il genitore ha il figlio con sè, senza dare per scontato un’automatica attribuzione di un assegno di sostentamento.

L’esigenza di questa modifica nasce dalla constatazione che oggi in Italia, a distanza di 12 anni dall’entrata in vigore, non si è ancora data piena attuazione alla legge sull’affidamento condiviso, ci sono ancora genitori (solitamente il padre) esclusi da una reale ed effettiva condivisione dei compiti di cura ed educazione dei figli, che si sentono chiamati solo ad adempiere ad obblighi economici con modalità talvolta estremamente gravose e che ritengono non giustificate dall’effettivo benessere dei figli, il tutto nell’ambito di una conflittualità della coppia genitoriale che per questi motivi è difficilmente risolvibile ed è causa di ulteriori disagi per i minori con conseguenze a volte anche gravi sulla loro crescita e la formazione della personalità adulta.

E’ vero tutto ciò? Il disegno di legge centra gli obiettivi che si propone?

Ma occorre davvero una modifica all’attuale disciplina per raggiungere questi obiettivi?

Per rispondere a questi interrogativi occorre fare il punto su cosa effettivamente preveda l’attuale legislazione vigente, su come è stata fino ad oggi applicata, e quali conseguenze ha prodotto.

BIGENITORIALITA’: MAMMA E PAPA’ SONO UGUALI?

Non sempre e quando lo sono ciò è dovuto alla disponibilità dei genitori che insieme ai propri legali riescono a raggiungere un accordo e, quindi, a separarsi consensualmente, decidendo loro stessi come gestire il rapporto con i figli.

Quando i genitori non riescono a conciliarsi e chiedono una decisione al Giudice, la risposta è diversa.

L’attuale disciplina, se correttamente interpretata, ha tutte le potenzialità per realizzare una piena e concreta condivisione dei compiti genitoriali, ma è stata tradita proprio nella fase applicativa.

Infatti, pur in presenza di chiare prescrizioni che attribuiscono ai minori precisi ed incontestabili diritti (il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, il diritto di ricevere cura, educazione, istruzione ed assistenza morale da entrambi), i Giudici, al momento dell’applicazione della legge, hanno preferito interpretare le norme in modo da non discostarsi dai propri orientamenti ultradecennali impostati su una visione di famiglia, che vede nella madre il genitore istituzionalmente deputato a dedicarsi alla crescita ed all’educazione dei figli (maternal preference).

All’indomani dell’entrata in vigore della legge sull’affidamento condiviso (L. 54/2006) i Giudici hanno elaborato il concetto di “collocamento” per individuare il genitore, con il quale i figli minori continueranno a vivere, la madre appunto, imponendo, così, un calendario di visite per il padre che si è, così, ritrovato sovente emarginato, obbligato a contribuire al mantenimento dei figli ma poco o nulla coinvolto nella loro vita, senza considerare i figli che, a loro volta, hanno subito, dopo la dissoluzione della famiglia, anche la perdita di un genitore con inevitabili conseguenze per la loro crescita e lo sviluppo di una personalità serena ed equilibrata.

Questa applicazione distorta della L. 54/2006 non ne ha evidentemente realizzato lo scopo, non ha tenuto conto che il modello “famiglia” negli ultimi quarant’anni si è evoluto, che sono sempre più numerosi i padri che si occupano quotidianamente dei figli, così come sono sempre più numerose le madri che pretendono di condividere con i padri gli impegni quotidiani della prole, le scelte e le responsabilità che la loro educazione comporta, che i figli stessi per crescere sereni hanno bisogno del padre e della madre, perché ognuno dei due genitori svolge un ruolo ed ha funzioni diverse ma complementari nell’educazione dei figli e nella trasmissione di competenze e valori.

Certo, qualche segnale di cambiamento negli ultimi anni vi è stato, alcuni Tribunali hanno pronunciato decisioni, dando concreta attuazione all’affidamento condiviso dei figli (Ravenna, Lecce, Brescia, Milano, Roma), altri (Brindisi e Perugia) hanno anche adottato delle linee guida per suggerire ai genitori i contenuti da inserire negli accordi della separazione nell’ottica di realizzare un concreto e non solo formale affidamento condiviso, ma 12 anni sono un po’ troppi per aspettare ulteriormente un’attuazione uniforme e non a macchia di leopardo delle indicazioni che il legislatore del 2006 ha dato con chiarezza.

Per emendare questa situazione il nuovo disegno di legge introduce l’obbligatorietà di un tempo minimo che deve essere garantito alla prole presso ciascun genitore: 12 giorni al mese compresi i pernottamenti che possono diventare 15, se uno dei genitori lo chiede.

Agli Avvocati della Famiglia che come me sono abituati nelle separazioni consensuali a cucire addosso ad ogni diversa realtà famigliare accordi che, conciliando le varie esigenze, meglio realizzino una gestione dei figli realmente condivisa, infastidisce una previsione legislativa che imponga la permanenza della prole presso ciascun genitore per un tempo determinato.

Ogni famiglia, si sa, è diversa dall’altra, occorre conciliare molteplici esigenze, personali e di lavoro dei genitori, di studio ed extrascolastiche dei figli, trasferte o lavoro all’estero possono impedire una frequentazione infrasettimanale.

Occorre, però, considerare che quando il conflitto è tale da impedire un accordo ed i genitori demandano la decisione al Tribunale, questa non può che essere imperativa.

Peraltro, a ben leggere, quanto previsto dal disegno di legge (art. 11) non impedisce la previsione di una frequentazione più articolata ed elastica magari con tempi di recupero nei periodi di vacanza.

D’altra parte, l’indicazione dei 12 giorni è in linea con le indicazioni dei Tribunali di più aperte vedute che prevedono nelle separazioni giudiziali che il genitore cd. non collocatario (di solito il padre) frequenti i figli minori a week end alternati con la madre, dal venerdì pomeriggio dopo la scuola/asilo al lunedì mattina con riaccompagno a scuola/asilo oltre uno o due pomeriggi infrasettimanali con pernottamento.

Ciò che la nuova norma intende perseguire è, pertanto, evitare che vi siano disparità di trattamento in ragione del diverso orientamento del Tribunale, cui i genitori si rivolgono e garantire un tempo minimo ritenuto essenziale per dare continuità alla relazione con i figli.

Pertanto, anche se non sarebbe stato necessario, in ragione dell’errata applicazione che è stata fatta della L. 54/2006 ben vengano le nuove indicazioni del legislatore con l’auspicio che questa volta vengano però correttamente applicate.

Ad un attento lettore, infatti, non può sfuggire che espressioni quali “oggettivi elementi ostativi” o previsioni di deroghe per “trascuratezza”, “indisponibilità di un genitore” o “inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore” contenute nella nuova normativa (art. 11) possono essere facilmente utilizzate per far rientrare dalla porta quello che si è voluto far uscire dalla finestra, continuando ad alimentare contenziosi infiniti sulla pelle dei figli.

Il denaro fa litigare? …. e la casa?

Sì. Accade spesso che nelle separazioni, che non si riesce a definire consensualmente, si litiga (a volte non solo) per gli aspetti economici che occorre regolamentare con la separazione, ovvero la casa coniugale, il contributo per i figli e (bisogna ricordarlo) l’eventuale contributo al coniuge.

Quanto al mantenimento dei figli già la legge vigente preferisce il mantenimento in forma diretta e considera l’assegno periodico non un automatismo dovuto “a prescindere”, ma da riconoscersi solo quando vi sia una significativa disparità tra le risorse economiche dei genitori in modo che entrambi abbiano denaro sufficiente a mantenere i figli, permettendo loro di conservare le stesse abitudini, fare le medesime attività, frequentare gli stessi luoghi e persone, come avveniva quando vivevano con entrambi i genitori e ciò a prescindere che stiano con la madre o con il padre.

Si parla in tal senso di funzione perequativa dell’assegno periodico, perché finalizzato ad integrare il reddito del genitore che guadagna di meno in modo che possa permettersi di dare al figlio le stesse cose che gli dà il genitore con un reddito maggiore.

Passando dalla norma alla sua applicazione, la situazione cambia perché è indubbio che, salvo casi sporadici piuttosto recenti, il Tribunale, proprio in ragione del collocamento dei figli presso la madre e del maggior tempo che la stessa dedica al loro accudimento, è solito riconoscerle automaticamente un contributo mensile, a prescindere dall’ammontare dei redditi di ciascun genitore.

Non solo. Invocando il superiore interesse del minore, il Giudice è solito assegnare la casa coniugale alla madre che continuerà a vivervi con i figli, sottraendone ogni forma di godimento o utilizzo al padre, anche se ne è proprietario esclusivo, fino alla piena indipendenza economica dei figli.

Ciò ha creato situazioni di grande disagio ed accese conflittualità.

Ha creato disagio economico (se non addirittura di povertà) per i padri con redditi normali, non elevati, che con la separazione si trovano a doversi mantenere un altro alloggio, magari continuare a pagare il mutuo della casa coniugale, corrispondere il contributo per il mantenimento dei figli e provvedere comunque al loro mantenimento diretto, quando li hanno con sé.

Ha determinato accese conflittualità laddove a fronte di un tale peso economico il padre nemmeno riesce a frequentare i figli per un tempo adeguato, senza contare quei padri che, per principio, non gradiscono dover corrispondere alla madre del denaro per contribuire al mantenimento dei figli, senza peraltro, averne un resoconto.

Alcuni dubitano che il denaro venga utilizzato, quanto meno interamente, per i figli, altri pensano sia un facile deterrente a che la madre si cerchi un lavoro e contribuisca anch’essa al mantenimento dei figli con denaro e non solo dedicandovi tempo ed energie, altri ancora pretendono, in ragione del denaro che corrispondono, di sindacare tempi e modalità con cui la madre si prende cura dei figli.

Insomma, la problematica non è semplice ed è indubbiamente gravosa da gestire non solo per i padri ma anche per le madri stesse, che spesso con la separazione vengono a trovarsi in una posizione di fragilità economica che le spaventa.

In Italia, le donne sono ancora discriminate sul luogo di lavoro quando diventano madri, molte, in difetto di un adeguato sistema di welfare che consenta di conciliare le esigenze casa e lavoro, lasciano la propria occupazione per dedicarsi ai figli, altre lavorano con il marito, altre ancora scelgono di restare a casa in pieno accordo con il padre per seguire personalmente la prole e la loro educazione.

E’ evidente l’estrema difficoltà in cui vengono a trovarsi al momento della separazione.

La nuova norma intende ridurre la conflittualità originata dalle questioni economiche, da un lato eliminando l’istituto dell’assegnazione della casa coniugale in modo che i genitori possano entrambi disporre della casa famigliare come qualunque bene di proprietà comune, dall’altro ripartisce tra i genitori i capitoli di spesa dei figli in proporzione ai redditi di ciascuno ed elimina il contributo economico con funzione perequativa.

L’eventualità che un genitore corrisponda all’altro un assegno periodico è ipotesi meramente residuale “ove sia strettamente necessario” ed è comunque temporalmente limitata, in quanto il Giudice dovrà indicare un termine entro il quale la corresponsione verrà a cessare.

La norma centra l’obiettivo di eliminare il contenzioso originato esclusivamente dalle questioni economiche?

A mio avviso no, anzi, se applicata alla lettera, rischia di alimentare comunque il contenzioso (magari anche trasferendolo sul fronte del contributo al mantenimento del coniuge) o di creare delle grosse diseguaglianze sociali.

Pensiamo alle madri che entrano nel mondo del lavoro con la separazione e che, quindi, vuoi per l’età adulta, vuoi per la mancanza di esperienza non possono avere grandi prospettive di carriera e, quindi, di guadagno.

Pensiamo alle madri che, pur lavorando, hanno rinunciato o limitato le proprie ambizioni per avere più tempo da dedicare ai figli e consentire ai mariti di progredire nel proprio lavoro.

Pensiamo a tutte quelle famiglie nelle quali vi è un tenore di vita elevato, di cui i figli hanno goduto fino a che i genitori sono rimasti insieme, in ragione dei maggiori redditi del padre rispetto alla madre.

Il disegno di legge stabilisce che i capitoli di spesa dei figli si distribuiscono tra i genitori in proporzione ai rispettivi redditi: se il padre guadagna di più, si farà carico di un maggior numero di capitoli di spesa.

E’ vero, ma queste madri dovranno arrendersi al fatto che i figli avranno due tenori di vita diversi quando staranno con loro e con il padre? Dovranno ammettere impotenti davanti ai figli di non potersi permettere di dar loro quello che dà loro il padre? Ci si è chiesti quale impatto ciò possa avere sui figli?

E, poi, quale voce in capitolo potranno mai avere queste madri sulla decisione di una spesa, il cui pagamento compete al padre perché non sono in grado di pagarla? Si pensi a particolari visite specialistiche private o un corso post laurea particolarmente qualificante per il futuro professionale del figlio.

Non credo che la conflittualità dei genitori possa risolversi, trasferendo semplicisticamente i disagi economici che oggi hanno i padri alle madri, un legislatore accorto dovrebbe cercare di ridurre o eliminare il problema, non trasferirlo da una categoria di persone all’altra.

Se è giusto riconoscere ai padri l’opportunità di tempo adeguato per coltivare il proprio rapporto con i figli, bisogna anche riconoscere alle madri, che non sono oggettivamente in grado di provvedervi da sole, l’opportunità di avere risorse economiche adeguate per mantenere i figli.

Ritengo, allora, che, se è condivisibile riconoscere il giusto valore al mantenimento diretto dei figli, se è corretto non prevedere alcun automatismo nella corresponsione del contributo economico, è altrettanto corretto continuare ad attribuire a tale contributo uno scopo perequativo, che dovrà essere attentamente valutato, caso per caso, tenendo conto di tutte le peculiarità della famiglia che si presenta al Giudice, di tutte le risorse e le potenzialità di ciascun coniuge, presenti e future, proprio nell’esclusivo e superiore interesse dei figli.

La nuova norma consente al Giudice questa valutazione discrezionale?

A mio avviso, sì.

Si tratterà di verificare come i Giudici vorranno interpretare l’espressione “ove sia strettamente necessario”, potendovi serenamente rientrare proprio i casi in cui vi è tra i genitori un’evidente disparità di risorse economiche, non solo reddituali ma anche patrimoniali, ed il genitore che ha un reddito inferiore non è obiettivamente in grado di migliorarlo e non ha altre disponibilità economiche.

Ritengo che la nuova norma consenta in tal caso al Giudice di attribuire a tale genitore un contributo economico per il mantenimento dei figli con funzione perequativa, ponendo come termine finale della corresponsione il raggiungimento della piena indipendenza economica degli stessi, la norma d’altra parte impone un “termine” ma non prevede limiti temporali.

Per quanto concerne la casa coniugale, siamo sicuri che la nuova norma centri l’obiettivo di eliminarne l’indisponibilità per il genitore che non ci vive?

Il disegno di legge non prevede l’istituto dell’assegnazione in quanto diritto di godimento attribuito al coniuge, con il quale i figli risiedono, opponibile ai terzi se il relativo provvedimento viene trascritto.

Però la nuova norma prevede anche che, in difetto di accordo dei genitori, il Giudice può stabilire nell’interesse del minore che questi mantenga la residenza nella casa famigliare, indicando, altresì, quale genitore può continuare a risiedervi (in caso di proprietà esclusiva, potrà risiedervi solo il coniuge proprietario).

Ora, supponiamo che il Giudice, forte di un orientamento consolidato ed ultradecennale che ritiene sia interesse prevalente del minore la conservazione dell’habitat domestico, fissi la residenza del minore nella casa famigliare, supponiamo anche che successivamente uno dei genitori, comproprietario della casa coniugale, voglia vendere l’immobile, ma l’altro non sia d’accordo e si opponga, perciò, al trasferimento della residenza del minore in altro luogo.

In difetto di consenso dei genitori, il Tribunale sarà chiamato a decidere se autorizzare il trasferimento della residenza del minore: prevarrà l’interesse meramente patrimoniale del genitore o quello del figlio al proprio benessere psicofisico, in relazione al quale verrà valutata dal Giudice la possibilità di trasferimento della sua residenza?

Vedremo…. Certamente sarebbe preferibile e maggiormente in linea con lo spirito della legge che i parametri per determinare la fissazione della residenza del minore vengano indicati non con la generica espressione “interesse del minore” , che, inutile negarsi, verrà interpretata dai Giudici secondo gli orientamenti già consolidati in materia, ma riferendosi ad elementi più concreti quali l’abitazione del genitore, con il quale il minore trascorre più tempo, o quello che si dedica personalmente per maggiore tempo all’accudimento dei figli e, in caso di parità, che venga chiaramente indicato che la residenza del minore è fissata a meri fini anagrafici.

NON E’ MEGLIO METTERSI D’ACCORDO?

L’unico aspetto del nuovo disegno di legge che veramente preoccupa è l’obbligatorietà della mediazione famigliare.

I coniugi con figli minori che vorranno separarsi dovranno obbligatoriamente rivolgersi ad un mediatore famigliare e provare a definire di comune accordo gli aspetti della separazione prima di rivolgersi al Tribunale.

Non che io sia contraria alla mediazione famigliare. Tutt’altro. Personalmente invito molto spesso i clienti a fare un percorso di mediazione famigliare, quando mi accorgo che sono bloccati nelle proprie emozioni e non riescono ad elaborare da soli tutta quella congerie di sentimenti (rabbia, frustrazione, rancore, senso di fallimento, solitudine, amore tradito….) che li assale con la separazione e che impedisce loro di considerare le questioni con il distacco sufficiente per poterle risolvere con un accordo invece che continuando a litigare.

Tuttavia, proprio perché ho l’esperienza sul campo, posso affermare con assoluta serenità che la mediazione famigliare non può essere imposta.

Perché una mediazione possa avere una chance di successo, un coniuge deve volerla affrontare e deve essere disponibile a mettere in discussione i propri sentimenti, i propri punti di vista.

Sovente non si tratta semplicemente di trovare un accordo su somme di denaro ma recuperare la fiducia nell’altro come genitore.

Una mediazione famigliare, se fatta seriamente, richiede mediamente otto/dieci sedute.

Le strutture pubbliche, dove ho sempre trovato ottimi mediatori famigliari, avranno la possibilità con le loro attuali risorse di realizzare anche tutta la parte procedurale che il disegno di legge prevede?

Se così non fosse, stante le indicazioni legislative, i genitori dovrebbero rivolgersi a soggetti privati ed affrontarne i relativi costi, che andrebbero a sommarsi a quegli degli avvocati anche per l’eventuale procedimento giudiziario, se la mediazione non dovesse concludersi con un accordo.

Moltissimi genitori non avrebbero la disponibilità di sostenere tutti questi costi e non è accettabile che venga varata una nuova regolamentazione, che ostacoli l’accesso all’autorità giudiziaria, in un settore così delicato per il benessere delle persone e delle generazioni future.

Non resta, pertanto, che auspicarsi che, seguendo l’esempio di altri ordinamenti, il legislatore voglia limitarsi ad imporre ai genitori solo un incontro informativo presso il mediatore, affinché possa essere loro spiegato in cosa consiste la mediazione famigliare per una libera e consapevole decisione a costo contenuto.

Bigenitorialità? Crederci

Le cifre ce lo confermano ogni giorno. Se il numero di matrimoni e unioni continua a scendere, quello di separazioni e divorzi tende a gonfiarsi. Addii che comportano, spesso, dolori e tensioni, soprattutto se la coppia non è sola. Perché accanto alle preoccupazioni e ai punti interrogativi di una nuova, e improvvisa, vita si fa largo il problema del come suddividersi i piaceri, e gli onori, dell’educazione dei figli.

Un processo legislativo lungo quello a cui è andato incontro l’ordinamento svizzero, consolidatosi in oltre tre lustri, e a monte del quale vi è il concetto, fondamentale, della bigenitorialità. Un processo che in Svizzera è stato avviato nel 2000, con la nuova legge sul divorzio, e che è passato attraverso la ‘grande rivoluzione’ del 2013 e l’approdo, nel 2017, alla custodia alternata.

Di questo importante passaggio, nel ruolo di genitori divisi ma uniti dalla presenza di uno o più figli, e dei suoi delicati risvolti sulla nostra società e sulla nostra cultura, ne abbiamo parlato con l’avvocato Maria De Pascale, esperta in diritto di famiglia e collaboratrice esterna dello studio legale Prospero di Lugano. Leggi tutto “Bigenitorialità? Crederci”

Bi-genitorialità

Con il termine bi-genitorialità si intende la partecipazione di ciascun genitore alla cura del figlio, alla sua educazione e crescita, alla formazione della sua personalità.

Da anni la ricerca psicologica, ed in particolare quella dello sviluppo infantile, ha evidenziato l’importanza per i figli che ciascun genitore svolga attivamente e con competenza le funzioni genitoriali che gli sono proprie per garantire loro un’equilibrata evoluzione della propria identità personale.

Ogni genitore ha un proprio ruolo e solo insieme essi si integrano e si completano: la madre, in quanto portatrice di cura, protezione ed affetto, è fondamentale per favorire il dialogo e la stima di sé; il padre, in quanto terzo esterno alla diade madre-figlio, guida il bambino fin dalla tenerissima età nel suo continuo lavoro di adattamento al mondo esterno, favorendone l’emancipazione dalla madre, ed in quanto portatore di un modello responsabile e capace di assumere decisioni e rispettare le regole, permette al figlio un adeguato sviluppo sociale ed emotivo.

Tutta la letteratura psicologica mette da sempre in evidenza il ruolo differenziale delle due figure genitoriali, mostrando come madri e padri giochino funzioni diverse ma complementari nell’educazione dei figli e nella trasmissione di competenze e valori. Leggi tutto “Bi-genitorialità”